L’Apatia del (non-)elettorato e l’Europeismo mancato

L’Apatia del (non-)elettorato e l’Europeismo mancato

Da svariati anni a questa parte, con l’avvicinarsi ed il successivo passare di un qualsivoglia appuntamento elettorale, il copione appare sempre lo stesso. Infatti, con l’avvicinarsi delle elezioni, partiti, politici e giornalisti si affannano a constatare un generale disinteresse dell’elettorato, che sfocia in una apatia carica di rancori e recriminazioni dirette dalle masse alla classe politica. Una volta svoltosi il processo democratico, si passa poi alla constatazione del crescente astensionismo, alla valutazione del voto di protesta (o di disperazione) e al languire sulle vaste fasce della popolazione “lasciata indietro”. Il tutto si conclude con il solito appello: “la classe politica deve riuscire a coinvolgere gli elettori, che non vedono più nella politica quella forza che può dare una risposta alle loro esigenze”.

Questa affermazione pone il problema come fosse una questione utilitaristica, quasi transazionale, in cui la politica deve dare qualcosa di materiale per avere partecipazione in cambio. Io ritengo, invece, che il tassello mancante sia una cosa diversa.

Dagli anni ‘90 ad oggi, si è persa completamente una visione “sul” e “del”futuro. La narrazione politica e sociale si è sempre più ancorata alla gestione del presente e dello status quo. Questo ha prodotto sempre più policies improntate al mantenimento di un benessere prodotto in passato, e che si è quindi consolidato sotto forma di rendita. Governi più progressisti hanno cercato di redistribuire un po’ più di questa rendita, e governi più neoliberisti hanno cercato di accentuarne il valore attuale. Tuttavia, si è perso completamente di vista il fatto che le rendite non sono auto alimentate.

Quando ce ne si è resi conto, privi di qualunque visione o immaginazione, tutti i leader politici occidentali hanno adottato la “crescita economica” (intesa esclusivamente come crescita del PIL) come mantra, senza rendersi conto che questa si era ormai slegata da una dinamica di benessere. La cieca ricerca (cieca in quanto priva di visione sociale) di una continua crescita economica ha sottinteso il desiderio di mantenere la struttura sociale preesistente, che però era ormai o morta o in via di cambiamento, sempre più rapido grazie alle nuove tecnologie (sempre più pervasive).

Il non essersi dunque resi conto che vi era una divergenza in corso tra l’evoluzione della società, la crescita economica e come questa si traduceva in benessere ha, secondo me, alimentato un sentimento di alienazione in vaste parti della popolazione. Questo processo di alienazione è stato trasversale alla società e non ha interessato solo le frange più vulnerabili, ma anche quelle più abbienti. Non è quindi un discorso di “gente lasciata indietro”, come spesso si racconta. Questa divergenza ha reso le persone sempre più “individui” e reso a loro sempre più difficile il rapportarsi con la collettività generale in una dimensione sociale e politica. Questo processo è stato amplificato dall’avvento dei social network, che hanno fortemente contribuito all’atomizzazione della società e all’isolamento della persona. Tuttavia, sebbene un’analisi sull’impatto dei social network esuli dallo scopo di questo testo, è mia opinione che questi non abbiano causato il problema, ma che lo abbiano solo accelerato.

Arrivate quindi le varie crisi che si sono susseguite negli anni 2000 (grande recessione, debiti sovrani, covid) questo isolamento ha quindi portato sempre più individui a guardare non tanto al proprio orticello, ma a quello che avevano in passato, a confrontarlo con ciò che è rimasto e ciò che hanno altri. Tutto questo è andato a tradursi o in pesante invidia sociale e generazionale o in un disperato desiderio di mantenimento dello status quo a tutti i costi.

Da qui si è poi andato ad alimentare un ciclo vizioso di miopia:

1) nulla conta se non immediato;

2) ciò che si è avuto in passato deve essere mantenuto;

3) io non ci devo perdere;

4) non ha senso pensare al futuro/non ho speranza nel futuro

Il populismo, sia di destra che di sinistra, si inserisce in questa dinamica: nessuna forza politica propone una visione di futuro, ma solo una redistribuzione della rendita macroeconomica preesistente, il tutto promettendo una crescita economica sperabilmente in grado di sostenere la rendita.

Questa dinamica è iniziata in Italia prima che altrove, ma è ormai comune un po’ ovunque.

Come rompere il ciclo e quindi attirare nuove persone? Proponendo una visione di futuro. Non è facile, perché bisogna accettare che un prezzo in termini di benessere lo si paghi. Almeno nel breve. Come proponi una visione di futuro? Offrendo qualcosa in cui credere che sia più grande della dimensione individuale.

La nostra area politica tende a rifugiarsi dentro ad una non meglio definita idea di Europa, che non si va mai a strutturare più di tanto. Questa assenza di colore al concetto europeo è, secondo me, un grave errore. Si finisce con lo sbandierare uno sovrastato europeo, senza connotati, anima o confini (non necessariamente di tipo geografico). È quindi difficilissimo entusiasmare qualcuno, già disilluso, offrendogli un fantasma e chiedendogli di fare lui lo sforzo di fantasia. Ma è invece facilissimo usare questo fantasma per spaventare la gente e riportarle verso un chiuso nazionalismo i cui connotati sono molto più facili da percepire per un individuo, anche per via dell’innato attaccamento che lo legano alla terra dove è nato.

Il problema principale in questa direzione è quindi che manca un filone identitario europeo capace di incanalare un processo di psicologia collettiva e dunque di appartenenza.

Per spiegare cosa intendo, uso l’esempio italiano, che può facilmente essere esteso ad altri Paesi.

Il nazionalismo italiano nasce da un sentimento viscerale di revanscismo che porta al desiderio irrazionale di rivalsa contro tutto e tutti. Questo sentimento dà origine a quel fenomeno di psicologia nazionale da cui si originano da un lato i populismi che “vogliono metterla in quel posto all’Europa” (una sorta di “gliela facciamo vedere noi!”), da un altro a moti di orgoglio in cui “noi dobbiamo essere i migliori in tutto” e, da un terzo, agli estremisti razzisti o classisti (a seconda che vengano da destra o sinistra) in cui si identifica un nemico interno, ma alieno al popolo/nazione, che va eliminato. In qualunque modo questo processo si manifesti si ottiene comunque l’effetto di creare un’idea di “noi” e lo fa in maniera dirompente e passionale, e consente di individuare tutta una serie di caratteristiche che fanno sì che persone diverse si identifichino come italiani “veri”.

Tutto questo manca a livello europeo: non c’è nulla che provochi un impeto passionale/irrazionale che faccia dire “Siamo europei, Viva l’Europa!”

Occorre quindi costruire un’impalcatura culturale identitaria su cui convergere. Questo è un processo esclusivamente culturale e non può essere raggiunto (solo) attraverso processi legislativi “freddi” e burocratici. Storicamente esistono due tipi di soluzione: integrazione negativa (più efficace, ma storicamente pericolosa) e integrazione positiva (più difficile, lunga, ma più “buona”).

Esempio classico di integrazione negativa è offerto dalla Germania (a guida prussiana) di fine 800. Sotto la guida di Bismark, la Germania iniziò la cosiddetta Kulturkampf, attraverso la quale lo Stato identificava cosa era tedesco “vero” e cosa no. Si creò quindi una visione ed un’identità nazionale e culturale in opposizione a qualcosa identificato come “alieno” (nel caso tedesco questi erano i cattolici, gli ebrei, gli slavi, i francesi, etc.). Insomma, individuare un nemico e creare un’identità in opposizione a quel nemico (“noi non siamo quella cosa là”). Come la storia insegna, questo ha sì funzionato, ma non in modi che vorremmo riprodurre.

Esempio classico di integrazione positiva è invece offerto proprio dall’Italia del 1860. L’Italia post-unitaria dell’800 si focalizzò da un lato sul creare il “mito del Risorgimento”, fondato sulla monarchia sabauda, nel quale coinvolgere una larghissima fascia della popolazione che dal Risorgimento non solo era stata esclusa, ma che a volte il Risorgimento lo aveva anche combattuto. Dall’altro si impegnò a creare una narrazione “mitologica” storica cui tutta la Nazione potesse ritrovarsi equamente. In pieno spirito romantico, questa si basò sull’Italia dei comuni, la Lega Lombarda (antimperiale e quindi in funzione antiaustriaca) ed il Rinascimento.

La logica (e sfida) diventa dunque trovare un elemento storico condiviso da tutti su cui improntare una narrazione e dire “noi siamo quella cosa là”. Questo è il tipo di integrazione (culturale) che serve all’Europa.

Uno spunto lo offrono i trattati stessi: l’Unione Europea si riconosce “Romana, Cristiana e Germanica”.

Occorre quindi trovare una sintesi su questi tre concetti. Questa è un’operazione non facile in quanto:

1) la “romanità” è un qualcosa che fa poco presa sui paesi slavi dell’Est Europa;

2) la “germanicità” piace solo ai paesi germanici (gli altri ancora la associano spesso agli anni ’40);

3) il concetto di cristianità viene spesso attaccato e rifiutato in favore di una laicità che viene confusa con ateismo di stato (il tutto senza comprendere che la cristianità va qui intesa come concezione culturale e non religiosa – vedasi Benedetto Croce).

Al fine di “riscoprire” questi tre pilastri e trovare una sintesi tra questi che porti ad un nucleo culturale comune che sia emotivo e non razionale (come può essere una più o meno chiara adesione ai “principi liberali democratici” – in cui non ci si rispecchia in buona parte dell’Est Europa).

Questo non può essere un processo top-down, deve necessariamente essere bottom up e deve coinvolgere quante più persone possibili.


-Andrea Casarico, segretario Azione UK e Irlanda 

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